Può, in una società evoluta, un giudice fare una serie di errori tali da condizionare (a volte in modo difficilmente riparabile) la vita di una persona? Può.
Ed è proprio perché può che esiste il concetto di “responsabilità civile”, in questo caso e per esteso, “responsabilità civile del magistrato”.
L’articolo 2043 del codice civile italiano prevede che, chiunque causi ingiustamente un danno, è chiamato a risarcirlo. In questo caso il pronome indefinito “chiunque” significa “tutti tranne magistrati, dipendenti statali, parastatali e affini” (tanto per disturbare il buon Giorgio Gaber). Parliamo soprattutto dei primi, i magistrati. Devono sottostare anch’essi al citato articolo di legge che, a loro, si applica però con dubbia elasticità. Può essere considerata una situazione anomala, quella del magistrato che, fosse perennemente esposto alla paura di sbagliare, lavorerebbe certamente male creando non pochi dissesti a tutto l’apparato giuridico e giudiziario. Ed è una regola generale che si estende a chi presta la propria opera in seno a tutti i poteri dello Stato.
Questo significa che il magistrato può causare tutti i danni che vuole senza subire le conseguenze delle sue azioni? Sì.
Stiamo calmi e ragioniamo (se Gaber fosse vivo lo chiamerebbe stalking): per non compromettere la funzione del giudice questo può compiere errori titanici senza rischio alcuno per la propria carriera? Sono due cose più che separate, sono assolutamente inconciliabili.
In Italia i magistrati agiscono all’interno di una bolla giuridica che ne limita le responsabilità. Ma nessuno si lamenti (troppo). Negli Stati Uniti il giudice è decisamente “untouchable”; da noi invece – se del caso – lo Stato può rivalersi in un secondo momento sul giudice (con tutta una serie di distinguo e di limiti).
Si può ovviare a tutto questo, come avviene del resto in tutti gli altri ambiti e come dovrebbe avvenire in tutti quei paesi che si fregiano di essere democratici, liberi e civili: la “patente” a punti.
Ad ogni errore macroscopico compiuto da un giudice (laddove anche la semplice negligenza è comprovabile) gli vengono sottratti, dal totale vergine, dei punti. Esattamente come accade per la patente di guida. Quando un giudice giunge al di sotto di un terzo dei punti totali (cosa che indica una particolare predilezione all’errore), viene destinato per un periodo di tempo ad altra occupazione e, nel frattempo, lo Stato investe delle risorse per formare meglio quell’uomo che, dotato di martelletto, ovviamente ha bisogno di essere (ri)educato alle procedure civili e penali.
Facile, attuabile, perfettibile ma (credo e spero) condivisibile. Ad una soluzione tutto sommato pratica si è preferita quella barbarie che risponde al nome di “Legge Vassalli” (Legge 117/1998). Il testo di legge prevede che vengano puniti i gravi doli e la denegata giustizia, entrambe cose mediamente difficili da provare. In questo caso l’avverbio è letterale: difficilissima da provare la prima, più facile la seconda.
Che tutti i Vassalli del mondo pensino come meglio credono. Fino a prova contraria serve una patente a punti.